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Trash talking. Dal Basket al Calcio, l’arte di provocare l’avversario

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Elemento caratteristico di molti sport, il trash talking è quella “singolare” pratica, messa in atto da un avversario nei confronti di un altro, per destabilizzarlo psicologicamente e avere la meglio su di lui, condizionando il risultato finale di un match.
Nata spontaneamente, quest’attività ha spesso giocato un ruolo decisivo nel determinare l’esito di partite e incontri, diventando parte integrante della strategia competitiva in diverse discipline.
Il basket è forse lo sport dove il trash talking trova la sua massima espressione, grazie alla vicinanza fisica tra i giocatori e alla natura intensamente competitiva di questo gioco. Atleti come Michael Jordan e Larry Bird sono diventati leggenda non solo per le loro incredibili gesta sul campo ma anche per la loro capacità di usare il trash talking per guadagnare un vantaggio psicologico sugli avversari. Jordan, in particolare, era maestro nel sottolineare le debolezze degli avversari, mentre Bird era noto per annunciare in anticipo le sue mosse, sfidando i difensori a fermarlo.
Il Trash Talking è diventato così “presente” in questo sport, da essere considerato una specie di forma d’arte, che non tutti sono in grado di applicare. Bisogna avere una “certa mentalità”, una buona dose di coraggio e anche una grande faccia tosta. La storia della NBA è piena di episodi legati al trash talking.
Cestisti come Kevin Garnett, Gary Payton, Michael Jordan, Rasheed Wallace, Larry Bird e Ron Artest erano rinomati per il loro linguaggio in campo, con cui letteralmente torturavano gli avversari.
Tra i trash talker famosi nella pallacanestro, Gary Payton era uno dei più accaniti. In campo non smetteva mai di parlare, e che si trattasse di un avversario, di un allenatore o di un tifoso, non risparmiava nessuno. Famosa fu la sua esclamazione: “Sit down you Smurf” (“Siediti puffo”), detta contro il coach dei Minnesota Timberwolves, quando giocava con i Seattle SuperSonics.
Duro, durissimo il trash talking di Kevin Garnett, probabilmente il più grande trash talker di tutti i tempi. Il suo linguaggio distruggeva gli avversari psicologicamente,
che letteralmente impazzivano.
Con la maglia dei Boston Celtics, in una partita contro i New York Knicks al Madison Square Garden, dopo diversi contatti in campo con Carmelo Anthony, disse “Your wife tastes like Honey Nut Cheerios”, scatenando un acceso diverbio. Famosissima, inoltre, per l’estrema cattiveria, fu il suo cattivissimo “Happy Mother’s Day” rivolto a mentre a Tim Duncan, sapendo che il suo avversario aveva perso la madre all’età di quattordici anni.
Che dire, poi del celebre “coke sign” ovvero il segno di soffocamento, fatto da Reggie Miller a Spike Lee, sì proprio lui, che dagli spalti della tifoseria dei New York Knicks, si era accanito contro il leader degli avversari, gli Indiana Pacers?
Miller, non solo nel momento cruciale della partita, segnò 8 punti in 11 secondi, ma la fece pagare al regista con il gestaccio, che divenne famosissimo.
Anche il calcio è pieno di esempi in cui il trash talking ha reso più “accese” le partite. Sicuramente l’episodio più iconico è ello che ha coinvolto Zinédine Zidane e Marco Materazzi nella finale dei Mondiali del 2006. Una provocazione verbale da parte del difensore italiano ha portato alla famosa reazione di Zidane, che ha colpito Materazzi con una testata al petto, venendo espulso nel suo ultimo incontro da professionista. Un addio al calcio poco decoroso, un episodio che ancora oggi fa risuonare la sua eco.
Parole come pugni, poi, nelle arti marziali miste (MMA): qui il trash talking assume una dimensione quasi teatrale, con atleti come Conor McGregor e Chael Sonnen che hanno elevato la pratica a parte integrante del loro personaggio pubblico. Questi combattenti utilizzano provocazioni e sfide verbali non solo per intimidire gli avversari prima del combattimento ma anche per aumentare l’interesse del pubblico e la posta in gioco degli incontri. Le conferenze stampa che precedono gli incontri di MMA spesso diventano palcoscenici dove atleti si lanciano sfide verbali, contribuendo a caricare l’attesa e a costruire una narrazione che va ben oltre lo scontro fisico.
Se da un lato il trash talking è visto come una componente strategica dello sport, dall’altro solleva questioni etiche riguardanti il rispetto tra avversari e l’esempio che gli atleti professionisti dovrebbero dare, soprattutto ai più giovani.
Insomma, se i valori sacri dello Sport devono essere improntati alla massima correttezza e al fair play, il trash talking si colloca in una dimensione diametralmente opposta.
Eppure, è innegabile che questa pratica aggiunge un elemento di drammaticità e intrattenimento allo sport, rendendo le competizioni non solo uno scontro fisico ma anche un duello psicologico, in cui vince chi “sopporta meglio”.
Il trash talking può trasformarsi in un’arma potente all’interno dello Sport: che si tratti di intimidire l’avversario o di incrementare l’interesse del pubblico, questa pratica rimane un elemento interessante, in grado di avere conseguenze dirette sull’esito di competizioni cruciali e che testimonia come lo sport sia un teatro in cui si intrecciano forza fisica, strategia mentale e arte oratoria.