“Biopic”, ovvero arma a doppio taglio, nel cinema, per raccontare la vita di un personaggio. Se questo, poi, è una leggenda vivente come Pelè, il rischio di fare un buco nell’acqua è dietro l’angolo. Non è certo il caso della pellicola di Jeffrey e Michael Zimbalist, nel film “Pelè” uscito nel 2016, con il giovane Kevin De Paula al suo esordio da attore e il “navigato” Vincent D’Onofrio.
I fratelli Zimbalist, che il Brasile lo conoscono bene, già autori di alcuni documentari sulle favelas carioca, hanno portato sul grande schermo una storia accorata e struggente, come quella del mitico calciatore brasiliano.
L’uomo, anzi il bambino che diventa uomo, è al centro dell’osservazione dei due giovani registi che partono proprio dalle polverose stradine di Bauru per raccontare l’infanzia di Edson Arantes do Nascimento, soprannominato Dico, poi divenuto per tutti Pelé. La strada, un’infanzia di stracci e di poche cose semplici fanno da sfondo a una passione, quella per il calcio, che supera ogni difficoltà e che unisce una famiglia e una gente. Una forza, una resilienza, che contraddistinguono il popolo brasiliano e che emergono da subito nel film Pelè.
Il primo torneo a nove anni, quando fu notato dal leggendario Waldemar de Brito, le giovanili del Santos, l’arrivo in prima squadra a sedici anni, fino alla consacrazione ai Mondiali di Svezia, dove Pelé, il più giovane del torneo, disputò la prima partita contro l’URSS nella fase a gironi. Il primo goal arrivò contro il Galles; poi, la semifinale contro la Francia e l’acclamazione con la doppietta in finale, contro la favoritissima Svezia di Liedholm e Hamrin.
Ma i successi del campione che ancora oggi detiene il record di tre Mondiali vinti, passa quasi in secondo piano nel film dei fratelli Zimbalist, di fronte al cuore vero del lungometraggio che è il “ginga”, anima del calcio verdeoro. I numeri rocamboleschi di Pelè con la palla, giocata al volo, senza mai farla cadere a terra, con qualche perdonabile azzardo di adattamento nella narrazione generale, i sentimenti genuini e autentici tra padre e figlio e un Brasile che trasuda vittoria nella sua capacità di non perdere mai la propria dignità, ci permettono di “perdonare”, per dirla così, un racconto che forse avrebbe potuto dare maggiore spazio al calcio, allo sport.
Eppure, proprio in quella genuinità e semplicità dipanate nelle scene del film, si comprende quanta grandezza ci sia dietro la storia del più grande talento calcistico di tutti i tempi, forse troppo grande da poter comprendere in poco più di 100 minuti.
Raccontare il calcio attraverso il cinema è forse impresa ardua per tutti o forse ci sono leggende ineffabili che alimentano anche con la fantasia, i sentimenti e i ricordi di ognuno di noi.